Binomi
inscindibili: Loira e Chenin Blanc, Nicolas Joly e biodinamica.
Pressappoco
20 mila flaconi annui, da vigne con un’età media tra i 35 e 40 anni, con
picchi di 80, per una appellation di
sette ettari, di esclusiva proprietà – monopole
- di Joly. Il resto, per chi desidera approfondire, motori di ricerca, merci.
Per
quanto mi riguarda, allorchè torno dalla cantina con flaconi di questo spessore
(ma anche meno), ormai ho imparato - dopo qualche scottatura di troppo - che le
aspettative devono essere pari allo zero, anche quando il produttore è così
reputato e il millesimo è storico, altrimenti vado in sbatta ancor prima di
infilare il cavatappi. Se poi vi confesso che questa arriva dal web, che lo zio
l’avrà comprata chissà dove, da chissà chi e via andare con altre mille paranoie che portano dritto filato all’ansia da prestazione (anche della boccia), capite che
avrei fatto prima, e meglio - absit iniuria verbis - a dirigermi dalle parti dei Pirenei per una
benedizione.
Sono
le ventuno di sera e mi serve, in bolla, per il pranzo-evento del giorno dopo. Prima
di estrarre il tappo, procedo con scontato rito apotropaico e pronuncio la
frase: “Je m’en fous”, d’obbligo in lingua transalpina.
Tappo
integro e incorrotto, p a r f a i t.
Nel
calice - giusto due dita - zero ossidazione, niente ambra, ma uno splendido
dorato brillante e un naso che, al momento, arruola solo idrocarburo a canna,
precisamente quel kerosene seventies austerity style.
Domani,
di ritorno dal mio dj set, ti gradirei libero, pettinato e privo di break
and beat.
Alle
otto del giorno dopo lo trovai muto, in cerca di identità, salvo poi mettersi a
fuoco, piano piano, tre ore più tardi. A quel punto compresi che il rito stava
funzionando di bella e la personalità e il carattere del purosangue si sarebbero
imposti con coraggio, senza reticenze, senza remore.
Alle tredici - a 14 ore dall’apertura – il naso, di freschezza inusitata e svincolatosi
dalla zavorra idrocarburica, attacca con una nota erbacea di timo e fieno e
tutti quei sentori che ci arrivano non appena mettiamo piede in un bosco:
muschio, fungo, tartufo e pure un sottile tocco di muffa.
Allontano,
per un attimo, il naso - stordito e capottato da troppa roba - giacchè mi rendo
conto che i profumi, con l’andare del tempo, cambiano, si scavalcano e si trasformano
in modo repentino e impressionante.
Riavvicinandomi,
trovo la declinazione fruttata – agrumi e mela, pesca e pera - e un forte
richiamo di anice stellato misto a semi di finocchio e zafferano, con aliti di
menta.
Pit stop.
Sono
al terzo tempo, impaziente di assaggiarlo e con le narici ormai ostaggio di
una sequela infinita di profumi. Nondimeno c’è ancora spazio per aguzze folate
di mineralità iodata e marina.
In
bocca è finissimo e molto secco. Acidità da katana, inserita in un cerchio
magico di sublime equilibrio. Ritrovo, in un rincorrersi strabiliante, gli interpreti dello spartito olfattivo, con armonici turn
over tra agrumi e pesca, chiare connotazioni vegetali e precisi tocchi
fungini. Ritorna, ripulita e ben marcata, la fisionomia idrocarburica dell’apertura,
ora intrecciata da esaltanti scie iodate e sapide. Complessità invidiabile, ammirabile
lunghezza e indescrivibile persistenza per un sorso profondissimo, che termina
con ampi ritorni minerali, misti a liquirizia, zafferano e caffè.
Con
risotto al parmigiano, giusto due sorsi per dire l’ho abbinato, ma poi, come
opto spessissimo, con queste opere d’arte, ho ritenuto che l’abbinamento migliore
fosse… evitare il cibo. Qualsivoglia.
Un’esperienza
unica e indimenticabile. Il miglior bianco mai bevuto, peut-être.